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Parla il Conte

In attesa di vederli sul palco il 1. ottobre a Como, Peter "The Count" Zaremba racconta i Fleshtones

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Nella foto i Fleshtones. Da sinistra Peter "The Count" Zaremba, Bill Milhizer, Ken Fox, Keith Streng. 
© COURTESY OF YEP ROC RECORDS


⇒ @ ROCKIN' BONES FESTIVAL 2
ARCI XANADÙ / SPAZIO GLORIA
Via Varesina 72, Como
In collaborazione con JOSHUA BLUES CLUB

01.10.22 | dalle 18:00 alle 02:00
FLESHTONES
MIDNIGHT KINGS
TIJUANA HORROR CLUB
SOFA REBELS
WAVERS
RUBBER ROOM


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STATI UNITI | NEW YORK (NY) - Non posso nascondere di avere provato una certa emozione nel tardo pomeriggio di sabato, digitando il numero di Peter Zaremba (voce, armonica, tastiere). Che di lì a poco, con gentilezza e umiltà, non ha lesinato nell'introdursi dentro istanti di vita, dentro istanti di un'esistenza spesa - con devozione - nel rock'n'roll. Rock'n'roll genuino. Rock'n'roll privo - volutamente - di inutili orpelli. «Ricordo perfettamente il nostro debutto al CBGB's», afferma, nonostante da quel giorno - il 19 maggio 1976 - siano passati oltre quarantasei anni. 
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Quarantasei anni condivisi - on the road - con Keith Streng (chitarra, voce). Di cui quarantadue con Bill Milhizer (batteria, voce) e trentadue con Ken Fox (basso, voce).
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In questi giorni i Fleshtones sono alle prese con un tour italo-francese di sedici date che ha preso il via da Alessandria il 27 settembre per terminare a Lille il 15 ottobre.
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Sabato si esibiranno - per la prima volta - a Como, nell'ambito della seconda edizione del Rockin' Bones Festival.
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Ciao Peter! Sono Marco, dalla Svizzera. Come stai?
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Ciao Marco, sto bene, grazie. E tu?
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Bene, grazie... Parli un ottimo italiano...
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Per ora mi fermo ai convenevoli, ma vorrei impararlo. Da dove mi chiami, esattamente?
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Da Lugano, a pochi chilometri dal confine italo-elvetico.
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So che oltre all'italiano, al tedesco e al francese, la quarta lingua nazionale svizzera è il romancio.
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Sei preparatissimo.
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La Svizzera ci ha sempre riservato un'accoglienza favolosa: Ginevra, Lucerna... E poi, sai, ho guardato in tv il ritiro di Roger Federer: un vero campione!
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Giochi a tennis, quindi?
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No, ma lo praticano mia moglie e mio figlio. E da qualche tempo ho scoperto di esserne appassionato... Un po' come accadde e accade tuttora con la musica...
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Vuoi approfondire questa tua ultima affermazione?
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Beh, la passione per la musica, per il rock'n'roll, non si è mai affievolita. Una devozione che ci spinse a dare vita alla band: non eravamo dei musicisti e andava bene così: l'intero movimento punk stava prendendo forma...
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Raccontami del tuo incontro con Keith (Streng, ndr), così come con gli altri due co-fondatori dei Fleshtones: Jan Marek Pakulski (basso) e Lenny Calderon (batteria).
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Il tempo scorre così velocemente che sembra ieri... O meglio, l'altroieri... (ride) Incontrai Keith alle superiori. Solo dopo qualche tempo, però, d'un tratto, scoprimmo di nutrire i medesimi interessi in fatto di musica: Yardbirds, i primi Stones... Ed entrambi, soprattutto, detestavamo ciò che prevalentemente passava in radio all'epoca.
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Vuoi fare un esempio?
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L'esempio perfetto lo collocherei in Emerson, Lake & Palmer. Ma anche nel glam, in termini generali, fatta eccezione per qualcosa all'inizio, in cui avevi ancora modo di percepire del rock'n'roll. Iniziai a etichettare il genere, lo stile, come "sludge rock" ("rock fangoso"): dal mio punto di vista, qualcosa di inconsistente, privo di ritmica... A che servivano, inoltre, quei palcoscenici giganteschi e quelle acconciature da barboncino? Un giorno, la mia ragazza mi chiese di accompagnarla al concerto dei Led Zeppelin tra le mura del Madison Square Garden: ci andai, anche perché i primi Zeppelin mi piacevano (la cover di "Communication Breakdown" figura, infatti, in "Do You Swing?", Yep Rec Records, 2003, ndr): i riverberi degli Yardbirds, in qualche modo, ancora si sentivano. Comunque, durante il live, d'un tratto, John Paul Jones si prodigò nel suo assolo di basso, mentre Page, Plant e Bonham lasciavano il palco per poi rientrare dopo dieci minuti. A turno, successivamente, accadde la stessa cosa per gli assolo di Page (chitarra) e di Bonham (batteria). Seppur mi trovassi al cospetto di musicisti di indubbio talento, dissi alla mia ragazza: «Perché devo stare a qui a guardare gli Zeppelin che guardano gli Zeppelin?». Sai, erano anni che io e Keith avevamo intenzione di dare vita a una band: la spinta definitiva, per gente come noi, arrivò solo dopo avere visto i Ramones nel 1975. I Ramones erano la prova che bastava costituire il gruppo e suonare. Tutto qui. Non servivano più contorni, autocelebrazioni e assolo di dieci-quindici minuti.
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Ricordi la primissima prova dei Fleshtones?
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Certo. Raggiunsi Keith e alcuni amici giù nello scantinato, adibito a locale prove. Avevo imparato a suonare l'armonica già da qualche anno, ascoltando gli Yardbirds, i Kinks e Sonny Boy Williamson: in maniera del tutto naturale, mi aggregai alla jam che in quegli istanti stava prendendo forma.
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Delle cover, in quell'occasione?
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No, improvvisazioni blues, da cui però si sviluppò un primissimo pezzo che intitolammo "Curtains" ("Sipari"): un titolo che potrebbe suggerire la fine di uno show, di uno spettacolo, ma quello fu il momento in cui i Fleshtones emettevano, alla luce dei fatti,  i primi vagiti.
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Per il nome del gruppo avevate valutato altre opzioni?
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Qualche anno prima, quando vivevo in un loft a Manhattan con Jon (Jonathan Quinn, ndr), un mio carissimo amico e compagno di classe alla scuola d'arte, riflettevo spesso sul nome che avremmo potuto affibbiare alla nostra band, se un giorno ne avessimo avuta una. Fleshtones fu tra i primissimi nomi a cui pensammo, senza poi più valutare altre riserve tipo Hightones, Lowtones o Anytones. A darci l'ispirazione fu un pastello che utilizzavamo a scuola, quello color carne, definito "flesh tone". All'inizio dei '70s non utilizzava più nessuno nomi di questo tipo... Per cui, Fleshtones risuonava nei '50s e in qualcosa di arcaico...
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Dimmi del loft a Manhattan...
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Per potertelo permettere, anche se eri ancora uno studente, ti bastava un lavoretto part-time. All'epoca, la Downtown era accessibile, underground, bohémien...
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Torniamo al primo periodo dei Fleshtones: è vero che condividevate la sala prove con i Cramps?
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Sì. Ne cercavamo un'altra e i Cramps ci invitarono a condividerla. Era sulla Bowery (Manhattan), all'interno di uno scantinato - una sorta di cripta - di un vecchio edificio. Ad affittare lo spazio ai Cramps fu la fotografa Stephanie Chernikowski, quando, dopo qualche tempo in Ohio, decisero di fare i bagagli e trasferirsi a New York. Ricordo una notte, di ritorno un po' alticci dal CBGB's - che era dall'altra parte della strada -, io, Jan Marek e Jon - con un vecchio registratore a bobine dei miei genitori, il modello Voice Of Music, tentammo di incidere un po' di cose, utilizzando la funzione overdub: non eravamo così esperti e, riascoltando il nastro, oramai alle sette del mattino, quello che fuoriusciva era orribile, ripetitivo, una sorta di "musica del diavolo". Tant'è vero che il giorno dopo al locale incrociammo Lux (Interior, ndr) e Ivy (Poison Ivy, ndr): «Ragazzi, Stephanie vuole buttarvi fuori, fate troppo casino!», ci dissero! (ride)
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Come ricordi Lux?
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A legare di più con Lux e Ivy fu Keith, che andava spesso a trovarli a casa. Devo confessarti che io avevo stretto un'ottima amicizia con la batterista, Miriam Linna (poi con i Nervous Rex, gli Zantees e gli A-Bones, nonché co-fondatrice, nel 1986, con il marito - il compianto Billy Miller -, della Norton Records, ndr), con cui, tra le altre cose, in quel periodo, andai a vedere i Flamin' Groovies a Philadelphia. Sai, era sempre molto entusiasta e indaffarata anche con la realizzazione di fanzine su gruppi come i Dictators e gli stessi Flamin' Groovies. Anche per questo motivo fu buttata fuori dai Cramps...
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Tu e Miriam vi sentite ancora?
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Sì, regolarmente. Ho lavorato per lei anche poco prima dell'emergenza pandemica, nella riorganizzazione della sua collezione di dischi, che è immensa.
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Di quanti dischi parli?
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Oh, migliaia e migliaia, Marco! È incredibile! Nel contempo, Miriam stava per pubblicare un libro, un volume di quasi 600 pagine, di suo marito Billy (deceduto nel 2016, ndr) e di Michael Hurtt: "Mind Over Matter: The Myths And Mysteries Of Detroit's Fortune Records" (Kicks Books/Norton Records, 2021), per il quale le ho dato una mano nel catalogare e fotografare le label dei 45 giri...
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Anche tu sei un collezionista, un cultore del vinile?
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Lo ero, ma non per il formato fine a sé stesso, bensì per la canzone, per l'album o per il tipo di registrazione. Non che abbia costruito una collezione legata prettamente a un genere o a uno stile, anche se la musica dei Fleshtones, in qualche modo, si riflette in ciò che potevi trovare nel mio archivio. Poco prima di iniziare a lavorare per lo show radiofonico di Little Steven (Little Steven's Underground Garage - Sirius XM Radio, ndr), in un modo o nell'altro dovevo cavarmela, per cui decisi di vendere buona parte della mia collezione su Ebay.
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Una necessità, quindi.
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Esatto. Ho venduto dischi su Ebay per un anno e mezzo. Non trovavo lavoro. Gente come me, pur mantenendo costante la propria attività musicale, spesso, per arrivare a fine mese, si arrangia con impieghi temporanei.
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Che tipo di professioni hai svolto?
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Ho lavorato per una ditta di estintori, per una di traslochi... Ho fatto di tutto, Marco. Potrei scrivere un libro... I Fleshtones sono la mia vocazione, tutto il resto è lavoro. Anche se per un periodo, negli '80s, devo dire che, con ciò che percepivo con la band e con la conduzione del programma su MTV ("I.R.S. Records Presents: The Cutting Edge", ndr), le entrate bastavano...
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Ricordi la prima in assoluto?
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Lavorai per un grosso promoter. Un impiego, questo, documentato anche in uno special televisivo: "Good Vibrations From Central Park" (registrato nel corso dello Schaefer Music Festival, a cui presero parte, tra gli altri, i Beach Boys e Ike & Tina Turner, ndr). Lo trovi su YouTube: a poco più di quaranta secondi dall'inizio, seppur solo in qualche fotogramma, mi puoi vedere verniciare di bianco una parte del palco. Era l'estate del 1971.
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Raccontami il debutto dei Fleshtones al CBGB's.
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Ricordo che discutevamo sul numero dei pezzi: «Con otto-nove canzoni, possiamo fare il nostro set», dicevo agli altri poco prima di salire sul palco. Era una delle sere riservate alle audizioni ed eravamo inevitabilmente un po' tesi. Ma, alla fine, andò bene e ci chiesero di tornare a esibirci di nuovo.
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Purtroppo, non ho avuto la fortuna di poterlo frequentare: come potresti descrivere il locale, entrato di diritto nella storia?
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Selvaggio. Era il centro del nostro mondo. Ciò che accadeva al suo interno, per quanto potevamo saperne, non accadeva da nessuna altra parte...
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E il Max's Kansas City, com'era??
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Il Max's era differente... Come dire... Un po' più composto... Ma, al suo interno, in quel periodo, giravano comunque diversi gruppi che ascoltavamo: in particolare i Suicide, di cui io e Keith eravamo fan sfegatati. E a sua volta anche Alan Vega lo diventò dei Fleshtones. Ed era difficile che le band della zona capissero esattamente il nostro intento: sai, suonavamo ai party per far divertire la gente. Il rock'n'roll è questo. Poi, anche Wayne County, sorprendentemente, si appassionò ai Fleshtones, chiedendoci di aprire al Max's per gli Electric Chairs. Se non ricordo male era un venerdì sera.
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Dimmi ora del processo compositivo di "American Beat" (Red Star Records, 1979), lato A del vostro primo singolo.
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Era un po' di tempo che mi frullava in testa un certo beat, già prima di costituire i Fleshtones. Il testo arrivò in seconda battuta. In quel periodo, nel 1978, avevamo firmato con Marty Thau (Red Star Records), un amico di Alan Vega (nonché, tra le altre cose, manager dei New York Dolls, ndr). Voleva continuare a produrre band newyorkesi - aveva anche già lavorato con i Ramones e i Blondie - e ci chiese più pezzi per la realizzazione di un album, che poi registrammo.
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L'album, "Blast Off!", però, non uscì fino al 1982. E fu dato alle stampe, in audiocassetta, dalla Roir. Dopo "Roman Gods" (I.R.S. Records, 1981). Cosa accadde con la Red Star?
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Avevamo inciso l'intero disco con Marty, che ci aveva garantito di portarci alla Sire. Ma una sera, al Max's, mi disse che aveva cambiato idea, proponendomi di darlo alle stampe con la Red Star. Non puoi immaginare che delusione... Anche se con la sua label erano già usciti gli album di esordio dei Real Kids e dei Suicide. Alla fine, con lui pubblicammo soltanto il singolo, "American Beat" / "Critical List". Marty era un visionario e, nello stesso tempo, apparteneva alla vecchia scuola: voleva un ufficio, degli impiegati... Anche Miriam (Linna, ndr) lavorava da lui... E, alla fine, per produrre il nostro disco con la Sire, non aveva abbastanza soldi...
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E della Roir, che vuoi dirmi?
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Neil Cooper, il fondatore della label, era una persona fantastica. Non so se lo sai, mai ho lavorato anche per lui, tra l'altro, nella realizzazione di alcune copertine (Television, MC5, Bush Tetras...). 
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Come veniva definita, all'inizio, la musica dei Fleshtones?
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Era complicato... Gli intellettuali ci identificavano, con un certo distacco, come una twist band e, devo dire, che a me comunque piaceva... Quando le cose iniziarono a funzionare, invece, i Fleshtones appartenevano alla new wave fino a quando, qualcuno, negli '80s, ci definì una garage band. E andava bene. Anche se, successivamente, un giorno coniammo il nostro genere, ossia il super rock: perché al suo interno confluiva, e confluisce tuttora, tutto ciò che amiamo. Ossia, rock'n'roll, r&b, disco...
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Con le compilation di Greg Shaw, in quel periodo, i ragazzi stavano  riscoprendo il garage rock... Non siete mai entrati in contatto con lui, nonostante la Bomp! fosse di base in California?
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Sì, se ne occupò Miriam. Ma a Greg - come a tante altre label - i Fleshtones non interessavano: anche secondo lui eravamo «solo una twist band».
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Il garage rock revival, in ogni caso, stava prendendo forma, con i Chesterfield Kings, i Fuzztones, gli Unclaimed...
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Non abbiamo mai tentato di tornare indietro nel tempo, nel 1966... Non ci interessava indossare un certo tipo di abbigliamento. Il nostro intento era soltanto quello di recuperare l'energia di quel periodo. Anche questo era uno dei motivi per cui i Fleshtones a tanta gente non piacevano...
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Nella seconda metà degli '80s avete aperto per Chuck Berry e per James Brown.
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James Brown fu molto cordiale, malgrado noi fossimo rumorosi e caotici... Se hai sentito qualcosa di negativo su Chuck Berry, beh, con noi fu sorprendentemente gentilissimo: ci chiese in prestito l'accordatore! Quando racconto questo aneddoto, la gente rimane perplessa: non per il fatto che fosse gentile, ma perché anche lui, quella sera, accordò la chitarra... (ride) A parte gli scherzi, per me James Brown è un monumento nazionale e Chuck Berry il Caravaggio del rock'n'roll.
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Veniamo ora a "Face Of The Screaming Warewolf" (Yep Rec Records, 2020), il vostro ultimo album. Quando avete iniziato a lavorare ai pezzi.
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Prima dell'emergenza pandemica, anche se quando è uscito, per certi versi, poteva sembrare il disco giusto per il momento giusto. Un mio carissimo amico, Mike Edison (Pleasure Fuckers...), mi suggerì di non incidere ancora una volta lo stesso disco... Poi, visto che è un grande fan degli Stones, aggiunse: «Dovete fare il vostro "Some Girls"!». E presi il suo consiglio come oro colato, anche perché era coerente con quanto avevo già in testa... Per cui, meno overdub e sonorità ancora più immediate.
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Le registrazioni, quindi, si sono svolte in presa diretta?
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Quasi, direi...
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La quarta traccia del disco è una cover, fantastica dal mio punto di vista, di "Child Of The Moon" (Rolling Stones). Un pezzo, questo, che in origine fu pubblicato esclusivamente come B side di Jumpin' Jack Flash (Decca, 1968). Perché questa scelta? 
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Quando il singolo uscì, lo acquistai immediatamente, a Flushing, nel Queens, dove vivevo. Ogni volta che compravo un 45 giri, ascoltavo sempre prima la B side. Per tanta gente, invece, era come se non fosse nemmeno incisa nei microsolchi. In ogni caso... "Child Of The Moon" mi ipnotizzò... Così, a distanza di qualche decennio dall'acquisto del 45 giri, ho deciso di riprenderla con i Fleshtones: ritengo sia una versione molto vicina all'originale, forse con una ritmica più sostenuta, così da renderla più ballabile. Una curiosità: in tanti sostengono che Brian Jones, durante le session, registrò alcune note con un sax soprano nei ritornelli. Ma non andò così, quei passaggi furono incisi utilizzando un'armonica: ed è ciò che ho fatto anch'io per la nostra versione, seppur non sia stato facile capire come riprodurli.
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Qual è il tuo album preferito degli Stones?
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È difficile. Andrei più sui singoli: "Have You Seen Your Mother, Baby, Standing In The Shadow?", "Brown Sugar" e "Jumpin' Jack Flash". Devo dire che "Satisfaction" non è mai stato uno dei miei pezzi preferiti.
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E di "Exile On Main St." (Rolling Stones Records, 1971), che contiene brani molto immediati come "Rocks Off" e "Rip This Joint", che ne pensi?
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Se non fosse un doppio album - un formato che non ho mai amato particolarmente -, sarebbe forse il migliore in assoluto.
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Quando li hai visti dal vivo?
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Mai. Sarei potuto andare al Madison Square Garden nel 1969 - ossia nei live da cui fu ricavato "Get Yer Ya-Ya's Out" (Decca, 1970) -, ma  qualcosa stava cambiando, e ritenevo che fosse già troppo tardi...
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Torniamo ai Fleshtones: siete al lavoro su nuovo materiale?
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Sì. Abbiamo già registrato cinque pezzi. È un po' troppo presto per dirti esattamente come si svilupperà a livello integrale, ma continueremo, in qualche modo, il percorso di "Face Of The Screaming Warewolf". 
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La realizzazione è prevista nel 2023?
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Sì, sicuramente.
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Tuttora tramite Yep Roc Records?
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Sì, certo.
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Prima di concludere, un'ultima curiosità: cosa fai nel tuo tempo libero?
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Taglio l'erba in giardino: per me è un momento meditativo. Mi rilassa e mi consente di riflettere per un paio d'ore su nuove canzoni.
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Ne ricordi alcune che hanno preso forma in quel contesto?
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"Remember The Ramones" (da "Wheel Of Talent", Yep Roc, 2014), così come con "The Show Is Over" (da "Face Of The Screaming Warewolf").
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Poi ti lascio andare... Cosa vuoi anticipare a coloro che assisteranno alla vostra performance in programma sabato a Como?
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Posso solo anticipare che sarà un'esperienza di vita, difficile da dimenticare... (ride)


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